Di Giusy Criscuolo
Roma. I Balcani occidentali, nella cornice del processo di integrazione europea, sono da tempo considerati partner prioritari anche nella cooperazione per il contrasto alla radicalizzazione, all’estremismo violento ed al terrorismo.
E’ perciò necessaria “una rigorosa analisi della minaccia – scrive Matteo Bressan, analista della NATO Foundation Defense College nel suo libro intitolato I Balcani occidentali al bivio – iniziando dal fenomeno dei combattenti partiti dai Balcani per unirsi a DAESH in Siria e in Iraq. Chi torna in regione dopo aver combattuto è militarmente addestrato e frustrato per un epilogo che ha deluso le aspettative”.
Insomma, i Balcani occidentali risultano essere, ad oggi, un Hub operativo e di lavoro per i Paesi dell’Alleanza atlantica. A più di venti anni dalla guerra e a circa venti dall’inizio dell’operazione KFOR (Kosovo Force), la regione sembra avere ancora la necessità di appoggiarsi a questa missione della NATO, attualmente a guida italiana.
E a distanza di venti anni dagli accordi di Dayton, cosa sta cambiando per i Balcani? Report Difesa lo ha chiesto all’autore del volume.
“I Balcani occidentali – risponde Bressan – sono ancora una regione sospesa in un percorso complesso di integrazione euro-atlantica, dove esistono delle difficoltà ancora non risolte. Abbiamo una necessità come europei e come membri della NATO di favorire questa integrazione. Purtroppo sulla strada ci sono evidenti difficoltà. Lo vediamo in Bosnia, lo abbiamo visto con il referendum in Macedonia, lo vediamo nella complessità dello stesso Kosovo, diventato indipendente nel 2008, ma che a distanza di venti anni dalla guerra del 1999, ha ancora necessità del supporto della comunità internazionale onde evitare ancora tensioni. Una regione molto importante anche per l’Italia, perché è strettamente vicina a noi e dalla quale provengono sia opportunità che possibili minacce.
L’intervista è proseguita sui cambiamenti in atto nelle relazioni esistenti tra noi ed i Balcani occidentali, con particolare riferimento al Kosovo, dove sotto l’egida delle Nazioni Unite, è presente la missione KFOR attualmente sotto il Comando delle forze Armate Italiane. Non manca nel prosieguo dell’intervista, un velato orgoglio di appartenenza a quell’Italia che riesce in modo egregio a farsi valere.
“L’Italia svolge dal 2013, per 5 anni consecutivi, il comando della missione KFOR – aggiunge l’analista -. Una missione che ha visto il susseguirsi di cinque comandanti italiani. Questo è un risultato importante che viene riconosciuto al nostro Paese. Un risultato che è anche un riconoscimento a quello che l’Italia sa fare nei processi di stabilizzazione e nella post conflict operation. Un risultato che ci vede premiati a livello NATO.”
Come sottolinea Bressan ,“questo si va a sommare ad altri importanti risultati che ci riguardano direttamente e che fanno riferimento alla piena operatività dell’Hub di Direzione Strategica della Nato per il Sud a Napoli. Hub che nasce anche, grazie al lavoro della nostra rappresentanza a Bruxelles. Lo stesso ministro della Difesa Elisabetta Trenta, nell’ultima ministeriale dei ministri della Difesa ha guardato con entusiasmo, al fatto che finalmente la NATO guarda al Sud. Quindi a quel tipo di minacce ibride e complesse che vedono anche, nei flussi migratori, nel terrorismo e nell’instabilità dei Paesi del Nord Africa un centro di pari dignità, all’antica e tradizionale minaccia proveniente da Est”.
“La presenza italiana – aggiunge Bressan – ha garantito un’importante continuità al processo di stabilizzazione del Kosovo. Siamo molto apprezzati sia dalla parte kosovara albanese, sia da quella dei kosovari serbi. Il motivo è la grande imparzialità e fermezza quando necessario, rispetto a tutti”.
Ma quali sono, le relazioni che la NATO deve tenere con il mondo dei Balcani?
“La presenza della NATO nei Balcani – spiega ancora Matteo Bressan – è stata a lungo necessaria per creare una stabilizzazione di aree uscite con grandi difficoltà dai conflitti degli anni ’90. Ora il contesto geopolitico è cambiato e a quella spinta iniziale, che abbiamo avuto dopo il 1991, dove effettivamente c’era un mondo definito unipolare, oggi abbiamo nella regione Balcanica non solo la NATO e l’Unione Europea ma abbiamo poi degli altri attori, regionali ed internazionali con agende diverse.”.
L’analista continua nella descrizione approfondita, facendo accenno agli attori internazionali aggiuntisi nell’agenda balcanica. “Abbiamo la Russia che ha osteggiato, con gran forza, l’ingresso del Montenegro nella NATO – evidenzia -. Abbiamo la Turchia che negli anni ’90 ha svolto un ruolo importante, ma che oggi, opera delle scelte politiche divergenti rispetto a quelle dei Paesi Europei. Penso alle monarchie del Golfo, che spesso hanno avuto un ruolo non sempre trasparente nel sostegno di alcune ONG o nel finanziamento di alcune istituzioni che sono proliferate nei Balcani. Il pensiero va anche alla Cina che ha inserito la Belt Road Initiative (strategia di sviluppo adottata dal Governo cinese e che prevede lo sviluppo di infrastrutture e investimenti in Europa, Asia e Africa) anche nella regione balcanica, con un occhio interessato e attento agli sviluppi in atto. Quegli attori che negli anni ’90 non avevano opposto resistenza all’allargamento Europeo e all’allargamento della NATO, oggi, in maniera più o meno velata, dicono la loro”.
Da questi interventi, trapela come il trend geopolitico sia molto più complesso. Ciò che si è vissuto tra gli anni 1991 e 1999, in cui sembrava ci fosse una grande concordia della comunità internazionale ed una grande forza espansiva della NATO e dell’Unione Europea, oggi è molto lontano.
Sulla sicurezza, “dobbiamo guardare con attenzione al numero dei jihadisti che sono partiti. Alcuni parlano di 800 altri di quasi 1.000. Non mi soffermo sul numero esatto, ma sui 350 che sono partiti dal Kosovo e che sono partiti in momenti differenti della crisi siriana e irachena”.
Non tutti sono andati ad aderire allo Stato Islamico, sostiene Bressan, altri sono andati soprattutto nel 2011-2012 a rinforzare le file delle milizie anti Assad. “Quindi dare una visione, una lettura univoca, di tutti quelli che sono partiti, può essere pericoloso – prosegue nella sua analisi -. E’ però emblematico, che questa regione ha visto un numero importante di foreign fighters. Il tema del ritorno è un problema sentito, il processi di deradicalizzazione devono essere potenziati, nel senso che non è sufficiente e pensabile prendere e rinchiudere al margine della società queste persone”.
Una delle conclusioni che può essere tratta è che una delle nuove sfide dei Balcani occidentali, sarà anche quella di affrontare la deradicalizzazione di questi soggetti. La sfida risulta essere ardua, proprio perché non ci sarà la possibilità di fare affidamento su un background di esperienze consolidate in questo settore.
“Notizie recenti, dicono che in Kosovo, dei simpatizzanti anche molto importanti legati all’ISIS, che hanno commesso efferatezze incredibili in Siria, sono in semi libertà – conclude l’analista della NATO Foundation Defense College -. Ci sono delle situazioni al limite e questa sfida del ritorno è una delle tante che sono eredità del collasso statuale dello Stato Islamico, ma non del collasso ideologico”.
Fonte: http://www.reportdifesa.it/balcani-occidentali-un-hub-operativo-per-i-paesi-dellalleanza-atlantica/